A Quinto Airola

Di tutti gli elementi estratti dalle viscere del globo terrestre, o ricavati da composti inorganici e organici disseminati negli oceani, nelle terre emerse e nell'atmo­sfera, il ferro è quello che ha giocato il ruolo principale nella storia del genere umano e della sua civiltà. E descritto nei libri di testo come un metallo bianco, duttile e malleabile raramente presente in natura allo stato puro, mentre sono abbondanti i suoi composti costituiti da idrati, ossidi, carbonati, solfuri, ecc. L'invenzione del processo metallurgico di estrazione pare abbia avuto inizio nell'estremo e medio Oriente e di qui sia stata importata in Egitto e in seguito in Europa verso la fine del secondo millennio avanti Cristo. La difficoltà della estrazione del ferro dai composti natura­li che lo contengono, a confronto di quella di altri metalli spiega la sua ritardata comparsa che si effettuò con un ritmo molto lento attraverso i secoli. La nobiltà di questo metallo proletario che ha svolto e continua a svolgere un ruolo essenziale sia come co­stituente della materia inorganica e organica che co­me materia prima sulla quale si cimenta la creatività dell'Homo Sapiens, è oggetto di uno dei più bei rac­conti del "Sistema periodico", il libro nel quale il chimico e scrittore, Primo Levi, dedica ogni racconto ad uno degli elementi chimici di questo sistema, anche noto come il sistema di Mendeleev, dal nome del chi­mico russo che per primo lo scoprì e ne intuì la grande portata scientifica.

Nel racconto dedicato al ferro Primo Levi descrive lo straordinario sodalizio che nacque sui banchi del labo­ratorio di chimica dell'Università di Torino e nelle scalate sulle Alpi, tra lui e Sandro Delmastro, figlio di un muratore di Serra d'Ivrea. "Sandro", scrive Primo "sembrava fatto di ferro ed era legato al ferro da una parentela antica: i padri dei suoi padri erano stati calderai e fabbri delle valli canavesane, fabbricavano chiodi sulla forgia a carbone, cerchiavano le ruote dei

carri col cerchione rovente, battevano la lastra sino a diventare sordi e lui stesso quando ravvisava nella roc­cia la vena rossa del ferro, gli pareva di ritrovare un amico".

Erano quelli gli anni nei quali l'Italia fascista schierata con la Germania nazista tramava la guerra che avrebbe portato il Paese allo sfacelo. "Sandro Delmastro", scri­ve Levi "sarebbe stato il primo caduto del Comando Militare Piemontese del Partito d'Azione. Nell'aprile del 1944, catturato dai fascisti non si arrese e tentò la fuga dalla Casa Littoria di Cuneo. Fu ucciso con una scarica di mitra alla nuca da un mostruoso carnefice­bambino, uno di quegli sciagurati sgherri di quindici anni che la Repubblica di Salò aveva arruolato nei riformatori".

Pensavo alla tragica storia di Sandro Delmastro, sim­bolo del ferro, che rivive nella stupenda descrizione di Primo Levi, contemplando le tue composizioni in ferro, Quinto, esposte in una piccola sala di un locale d'arte in Torino.

Anche tu come Sandro sei stato e sei tuttora a ascinato da questo metallo che hai imparato a conoscere e pla­smare sin dalla tua prima giovinezza lavorando in offi­cine meccaniche prima di dedicarti interamente alla tua attività di artista.

Spiccava sul primo tavolo di questa piccola esposizione un Don Chisciotte chiuso nella sua armatura di ferro e di sognata gloria, ritto sulla sua scheletrica cavalcatu­ra. Accanto al cavaliere errante un filiforme suonatore di violino, un barbone ricurvo sotto un grande cappel­lone bianco che ne nascondeva il viso e metteva in risalto un senso di infinito abbandono che emanava dal corpo ripiegato su se stesso confortato dal suo cane costruito con pochi tratti di ferro. A fianco del barbone, si imponeva alla vista un torso di guerriero plasmato con spezzoni di granata recuperati da uno dei tanti negozi di Feramiù che tu visiti in tutti i momenti liberi alla ricerca di questi preziosi rottami di ferro. Vicino a queste composizioni scolpite con grande mae­stria e ricche di profonda vena poetica, si profilava l'arroganza ingenua e insolente di un gallo creato con pochi archi di ferro battuto. La superba cresta e il becco aperto nel lancio del suo verso, erano l'immagine viven­te di una vanità erotica che un nostro arguto scrittore, Vitaliano Brancati aveva preso a simbolo della stessa vanità mascolinista umana e descritto con il termine da lui coniato di "gallismo".

Quelle ed altre opere esposte su un tavolo vicino mi hanno profondamente colpita per l'intenso contenuto poetico e l'originalità creativa.r A queste così felici composizioni delle quali non ho potuto ammirare che quelle delineate, altre di piccolo e grande formato sono riprodotte in un precedente cata­logo del 1987 nel quale, oltre alle opere, è descritto il tuo curriculum di giovane appassionato artista del fer­ro.

Infiniti auguri, Quinto, e le mie più vive felicitazioni.

 

Rita Levi Montalcini